saluto

sabato 18 dicembre 2010

Megalopoli e baraccopoli


Slum di Kibera
Nairobi è la capitale del Kenia ed ha una popolazione stimata di oltre quattro milioni di abitanti. Attorno alla città sorgono le baraccopoli dette slum, la cui popolazione complessiva, secondo stime dell’ONU, è di circa 2.000.000. Kibera è la baraccopoli più grossa, qui vivono oltre 800mila persone in baracche di fango e lamiera, ci sono fogne a cielo aperto e nessun servizio sanitario o sociale.  Non hanno acqua per cucinare, per lavarsi, per irrigare. Conseguenza diretta della mancanza d’acqua e quindi d’igiene, molti sono malati di Idatidosi, malattia insidiosa, trasmessa all’uomo e agli animali da un parassita presente nelle feci dei cani. Si paga l’affitto per vivere in una baracca e questo basterebbe per rendere la situazione esplosiva. Chi ha un lavoro ha uno stipendio assolutamente insufficiente che equivale a pochi euro, la stragrande maggioranza della popolazione può avere acqua comprandola a caro prezzo nei punti vendita. Ci vorrebbero delle costruzioni realizzate per raccogliere almeno la poca pioggia, ma manca anche il cemento per realizzarle.

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Favelas di Rio de Janeiro
Rio è una città di contrasti, gran parte della città è simile alle più moderne metropoli del mondo ma, una percentuale significativa dei 6.186.710 abitanti (censimento 2009) vive ancora in zone estremamente povere. Nel 2004, si stimò che il 19% della popolazione di Rio vivesse nelle favelas, abitazioni costruite con diversi materiali, dai mattoni a scarti recuperati dall'immondizia con i tetti sovente in Eternit. Queste abitazioni spesso sono edificate sui fianchi delle colline, dove gli smottamenti, provocati dalle piogge intense, sono frequenti. La Favela da Rocinha è la più grande, ufficiosamente pare ci vivano 60.000 persone ma alcuni dicono che sono più del doppio. Il Brasile è ancora tra i paesi con la peggior redistribuzione del reddito e le favelas sono afflitte dalla diffusione dei crimini legati alla droga, dalle lotte tra bande e da altri problemi sociali legati alla povertà.

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Barrios di Bogotà
Bogotá la capitale della Colombia attualmente conta circa sette milioni di abitanti, ed è divisa in venti quartieri. Vi sono le case basse ed eleganti dei quartieri spagnoli e le imponenti strutture dei grattacieli, tutto attorno, baracche, case di legno e lamiera, strade e sentieri strappati all'argilla delle colline.
Esistono ancora forti contrasti sociali, tra chi è straordinariamente ricco, e chi per vivere deve cedere passivamente a compromessi continui o alimenta la catena dell'illegalità. Questa è la ragione dei barrios, agglomerati senza ordine e senza legge, dove la promiscuità dei rapporti umani e sociali regna incontrastata. I Barrios sono il risultato di un flusso migratorio incontrollato che dalle aree rurali in forte recessione economica spinge verso i centri urbani. Negli ultimi decenni a migliaia hanno abbandonato la zona andina e del litorale per spostarsi in direzione del Venezuela e dell'Ecuador, del Panama e dei Caraibi, e ancora verso Stati Uniti ed Europa, portando droga. Non si tratta solo di cocaina; migliaia di ettari di montagna sono ancora coltivati a papavero per l'eroina. Nei barrios non ci sono ospedali, s'ignorano quasi del tutto le nozioni base d'educazione sanitaria, si nasce, vive e muore nelle baracche

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Populares colonias di Mexico City
La zona metropolitana della città era abitata nel 2005 da 19.311.365 abitanti, 4 milioni relegati in barrios di disperati. A Città del Messico la bidonville si estende per circa venti chilometri. In questi ghetti le fasce più povere della popolazione della capitale sono state costrette a riversarsi, in seguito alla distruzione e alla riqualificazione dei quartieri periferici per lasciar spazio alla città in espansione. Le abitazioni sono senza luce, senza acqua potabile ne' servizi igienici ed in precarie condizioni sanitarie. Questi luoghi di degrado, sorti sulle colline ai margini della città, sono popolati da mendicanti, lavavetri  prostitute e ragazzi (niños de rua) che vivono alla giornata, cercando in qualche modo di sfamarsi, e che sono ritenuti un pericolo.
Hanno bisogno, per sopravvivere, d'aiuti internazionali ma la situazione è peggiorata da, quando, all'inizio del 2004, la croce rossa internazionale ha ridotto gli aiuti alimentari per far fronte all'emergenza irachena

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Slum di Dharavi
E’ la baraccopoli più grande dell'Asia fatta di casupole di legno e lamiera, qui vivono in un'area di 175 ettari forse un milione di persone. Edificato direttamente sulla spazzatura della città, lo slum di Dharavi costituisce un'immensa fabbrica di riciclaggio dei rifiuti, opera cui sono dediti gli abitanti della baraccopoli.
Le statistiche dichiarano che gli abitanti di quest'area sono stipati con una media di dieci abitanti per alloggio. Dharavi è: spazi ristretti, prevalente oscurità, fossati d'acque nere dove i pescatori di residui solidi riciclabili, navigano alla ricerca di qualcosa da riutilizzare. Attorno alla baraccopoli spuntano come funghi caseggiati d'edilizia residenziale per la classe media. I due mondi convivono, incuranti l'uno dell'altro e Dharavi sopravvive con ciò che il resto della società getta.

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Di seguito un reportage scritto da Sabina Morandi nel 2004 prima che in questo slum fosse girato il film The Millionaire (Slumdog Millionaire) un film del 2008 diretto da Danny Boyle 

Bombay nostra inviata
Sabina Morandi
   Dharavi.
A Dharavi dove si vive immersi nella merda 
Nello slum più grande di Bombay tra i "dannati" che recuperano materiali dai rifiuti.
Come vicolo, cinquanta centimetri di fango. Come casa, una palafitta di legno e lamiera. Nello slum di Dharavi, Dio ha smesso di esistere da un pezzo. E chi non credeva in Dio, appena mette piede dentro questa specie di termitaio edificato direttamente - su e con - la spazzatura della città, perde ogni fede negli esseri umani. Il che, forse, è anche peggio. La gente (settecentomila e passa esseri umani) si affaccia per guardarti passare. I bambini hanno le pance gonfie e le facce attonite. Tutti gli altri (donne, vecchi e ragazzi) smettono di lavorare e rispondono educatamente al tuo saluto. Perché, dentro a questo inferno puzzolente, la gente lavora, ogni giorno, dall'alba al tramonto. Pescano la spazzatura immersi fino al petto nell'acqua nera del canale di scolo. Cuociono e macerano e rimestano e seccano finché non hanno ottenuto materiale da riciclare dagli avanzi della città.
Nelle squallide costruzioni dove gli unici effetti personali sono degli stracci, vengono allineate, in ordine perfetto, pile e pile di cartone, latta, plastica. E' la prima fase del riciclaggio industriale. Solo che qui viene fatto a mano, direttamente nella discarica.
Più avanti, vicino a una sorta di radura che potrebbe essere considerata una piazza, con tanto di sedia da barbiere, è stata costruita una piccola officina dove il Pvc (un tipo di plastica proibito da noi perché altamente cancerogeno) viene lavorato in modo rudimentale. Inutile dire che i fumi, nauseanti e notoriamente tossici, vengono respirati dai lavoranti e dai bambini che vivono a ridosso dell'officina.
Per descrivere che cosa ha questa gente basta mettere in fila una serie di negazioni: niente luce, niente acqua, ovviamente niente servizi igienici. La scuola è su Marte, l'assistenza sanitaria sulla luna. Il governo manda un medico una volta l'anno a farsi un giro per Dharavi, così può prescrivere medicine che nessuno potrà mai comprare.
Dimenticatevi tutte le belle fandonie sul fatalismo o sulla capacità di sopportazione degli hindu. Dharavi, dove le religioni si mescolano in un comune sconforto, è un luogo inumano che rende inumani, e la sua esistenza è semplicemente inaccettabile. E se, a fatica, si riesce in qualche modo a superare la rabbia suscitata dal contatto con una realtà del genere, per riuscire a fare qualcosa non si può che partire dalle uniche due risorse disponibili: la coesione della comunità e la spazzatura.
Il riciclaggio della spazzatura di Bombay, che confluisce qui attraverso i canali, dà da vivere a centinaia di piccole botteghe nate a ridosso della baraccopoli. Dove una volta c'erano i conciatori di pelle ora si recupera plastica, alluminio, cartone e milioni di contenitori che vengono ripescati. Il materiale riciclato viene rivenduto agli stabilimenti industriali (come il Pvc) oppure al dettaglio.
In questo contesto parlare di commercio equo, di fair trade, per dirla all'inglese, può sembrare surreale, eppure è esattamente da qui che si deve partire secondo Joachim Arputham Magsaysay, presidente della Federation of slum dwellers dell'India, ovvero i raccoglitori delle baraccopoli: "Abbiamo voluto fortemente che la nuova rete del commercio equo e solidale di tutto il mondo venisse lanciata da qui, dove la gente vive dei rifiuti della città, perché solo sperimentando e imponendo, a partire da un'esperienza concreta di economia alternativa, regole nuove, giustizia e rispetto della dignità di tutti noi, possiamo avere la speranza di cambiare tutto questo".
Joachim parla del marchio Fto lanciato dalla Federazione internazionale del commercio alternativo Ifat, che la gente di Dharavi è venuta a festeggiare, polizia permettendo. L'idea, sostenuta da più di 200 organizzazioni (fra cui l'italiana Roba dell'Altro Mondo) è quella di mettere l'importazione di oggetti di artigianato e dei prodotti agricoli al riparo dalle speculazioni e dalle fluttuazioni del mercato. Coinvolgere l'infernale produzione dello slum di Bombay assume quindi un doppio significato: dare dignità al lavoro di queste persone e trasmettere loro un sistema di regole condiviso, da rispettare e da far rispettare. Per la gente dello slum significa imparare subito a difendersi dagli intermediari e dagli sfruttatori per riuscire, domani, a trasformare la raccolta dei rifiuti in un lavoro più umano. Un'opportunità che Dharavi festeggia con un vero banchetto con tanto di banda (in divisa) e di elefante bardato a festa.
Sabina Morandi

Inviata il 20/1/2004

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